Anni fa, in un quartiere popolare di una grande città del nord, vivevo in un piccolo appartamento.
I miei nuovi vicini, trasferitisi poco prima di me, erano una famiglia Rom di origine bulgara. Erano in nove (genitori e sette figli) a vivere in un appartamento di soli 60 metri quadri.
Le due stanze da letto erano divise per genere: una per i maschi e una per le femmine. Solo la figlia maggiore, Yuliya, dormiva da sola sul divano del soggiorno-cucina.
Il suo bisogno di concentrazione per lo studio e il lavoro la spingeva a cercare un sonno ristoratore, lontano dai pianti e dalle esigenze delle sorelle più piccole.
Lei e il padre operaio (Boyan), erano l’unica fonte di reddito familiare. Lavorava come magazziniera in un piccolo supermercato, dividendosi tra il lavoro e lo studio in una scuola serale. Nonostante le difficoltà, Yuliya era una ragazza sveglia, precisa e responsabile.
La sua tenacia e il suo impegno erano un esempio per l’intera famiglia
Gli altri membri della famiglia con cui avevo qualche sporadico incontro (un saluto nelle scale, un gesto gentile come tenere aperta la porta o scambiarsi un aiuto con le buste della spesa) erano persone tranquille e mediamente cordiali, come qualsiasi altro vicino di casa che badasse alle proprie faccende.
Tuttavia, avevano una peculiarità: erano innegabilmente Rom, sia per i tratti somatici sia, nel caso della mamma, per il modo di vestire.
Incarnavano perfettamente l’immagine stereotipata che molti hanno dello “zingaro”.
La quiete del quartiere venne improvvisamente scossa dall’apertura di un cantiere dall’altra parte della strada. Un mostro di cemento e acciaio che divorò quasi metà dei parcheggi disponibili, scatenando una guerra silenziosa tra i condomini per il posto auto.
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