Categories: Storie dal vicinato

Il fallo al vicino.

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Era il 1990.

Come ho già scritto in un vecchio post, abitavo in un condominio molto grande popolato da più di un centinaio di famiglie.

Tra di queste ne spiccava una in particolare.

Abitava nell’unico attico esistente nei 6 palazzoni che costituivano il complesso.

Erano i benestanti del condominio e facevano di tutto per non far passare inosservato il loro status di “pien de schei” (pieni di soldi).

Lei, una signora magrissima, impellicciatissima fino a tarda primavera, indossava sempre un sette – otto etti di gioielli e vagava per le viuzze condominiali con un’espressione tra l’infelice e l’incazzato.

I due figli, due adolescenti sociopatici detestati da tutti, erano dei campioni di arroganza e antipatia.

E poi c’era lui, il padre, un noto professionista della zona, un uomo abbastanza alto, di circa 120 kg di peso. Un personaggio che divideva: detestato da molti, invidiato, osannato e ammirato da altri per il suo stile di vita, la sua cultura e la capacità dialettica.

Rappresentava un po’ i “valori” che avevano caratterizzato gli appena trascorsi anni ‘80.

Era un sabato come tanti, faceva ancora freddo, ma al sole del mattino si stava bene.

Ero in uno dei piazzali del condominio a giocare a calcio, sul cemento, come si faceva in quegli anni, con altri quattro ragazzini allora tredicenni.

Qualche anno dopo comparirono i primi cartelli: “È vietato il giuoco del pallone” “È fatto divieto di giocare al pallone”. Ma perché erano scritti così? Il giuoco?

Ad un certo punto arrivarono dal vialetto i due ragazzi accompagnati dal padre.

I due in tenuta della nazionale di calcio italiana. Le maglie azzurre della Diadora che indossavano, lucentissime e bellissime, erano parzialmente coperte dalle felpe della tuta in triacetato con il logo “IP” portate con la zip aperta. I pantaloncini di un bianco ottico con il numero in blu.

Io avevo raccolto appena una decina di punti di “Vinci Campione” della Ferrero e per arrivare alla maglia avrei dovuto mangiare almeno altri 8 kg di kinder brioss.

⁃ “Giochiamo anche noi” dissero.

Ma chi li aveva invitato?

⁃ “No, voi no”.

Il padre qualche metro più indietro con sottobraccio il pallone nuovo fiammante dell’Adidas: Etrusco, il pallone ufficiale dei mondiali.

-“Gioco io con i miei figli contro tutti voi”.

In 3 contro 5.

-“Ok facciamolo”.

Lui indossava dei mocassini Timberland, dei pantaloni eleganti grigi e una maglia della Lacoste infilata dentro i pantaloni con un gilet a coprire i maniglioni del giro vita.

Non ricordo molto della partita, ma i due episodi chiave sono difficili da dimenticare anche dopo 30 anni.

Un tiro di potenza incredibile, alla Mark Lenders, effettuato dall’omone colpiva in piena pancia il nostro portiere togliendogli il respiro per qualche secondo. Seguivano qualche conato e un piagnisteo soffocato dall’orgoglio.

Ricordo lo sguardo dell’uomo adulto compiaciuto.

Che str..,

Stava giocando con dei ragazzini che pesavano meno della metà di lui.

E poi il suo dribbling, ricordo il momento dell’avvicinamento verso di me dopo aver abbattuto un mio compagno.

Galoppava con le movenze di uno gnu che sta per attraversare il Serengeti, mi stava per travolgere, quando decidevo timidamente di allungare comunque il piede.

Il pallone si fermava tra il mio piede, messo di piatto, ed il suo, di mezzo collo.

Ricordo ancora la scena come fosse stata girata al rallentatore: il pallone fermo sul mio piede ed un grosso uomo, tradito dall’equilibrio si accasciava in avanti a pochi centimetri da me.

Il suo culone largo e alto verso il cielo non mi permetteva di vedere bene: ma la scena pulp a cui stavo assistendo era epica.

Gli occhiali in celluloide senza una lente, la fronte con un piccolo taglio sulla destra zampillava sangue a fiotti, i pantaloni aperti sulle ginocchia e sul posteriore ed il parrucchino finito sotto il suo stesso ginocchio.

Appena alzato, con la faccia sfigurata, mi voleva menare tenendo il parrucchino in una mano e nell’altra gli occhiali rotti, mentre io gridavo: “Non era fallo, ho preso la palla, non il piede, non era fallo!!”.

Mi odiava e io, con faccia come il culo, lo guardavo con un mezzo ghigno di compiacimento.

David e Golia.

I figli spaventati dalle urla isteriche del padre si avvicinarono e lui urlando: “A casaaa!” piazzava potenti calci nel sedere dei ragazzini per farli camminare più velocemente.

Mentre se ne andava mi diceva: “Te la faccio pagare!!!”

I figli piangenti, lui zoppicante e cinque ragazzini rimasti lì tra le macchie di sangue e alcuni peli del suo toupet.

Il pomeriggio, grazie alla moglie dalla parrucchiera, la notizia era rimbalzata ovunque.

Per alcuni ero il delinquente che aveva attentato alla salute del Ras del quartiere, per altri, al contrario, ero una sorta di eroe.

Mentre il padre proibiva ai figli di avvicinarsi a me – e questa era una buona notizia – la moglie chiamava a casa mia per parlare con i miei e per dire che ero pericoloso e avevo quasi “ucciso” suo marito.

Sono onesto non ricordo se fui soggetto a punizioni o sgridate particolari.

Penso a quegli anni, ai grandi condominii, ai palloni sui muri, ai ragazzini urlanti, all’assenza di regole, regolamenti, ai cartelli con i divieti….

Ma alla fine si stava meglio o peggio?

Io non so rispondere, ma quell’io ragazzino probabilmente mi starebbe un po’ sulle palle averlo sotto casa.

L’omone non mi odiò per tutta la vita e molti anni dopo mi fece addirittura un regalo per la mia laurea ed uno per il mio matrimonio.

Forse in fondo è più tollerante di me.

#unavitaadepisodi

**Storia pubblicata con l’autorizzazione del genio di Massimo Atzeni 

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